Lo smartworking sopravviverà?

La parola “Smart working” è stata quella più utilizzata, a volte anche spesso e a sproposito. Rimarrà la parola simbolo della pandemia. Ad oggi, in cui molte realtà lavorative, stanno ritornando alla normalità, bisognerebbe domandarsi: chi lo ha fatto veramente? Chi continuerà a farlo con profitto di tutte le parti in causa? Per rispondere a queste domande epocali, Demia ed Hermes consulting, per il quotidiano Il Corriere della Sera, hanno intervistato 500 manager italiani tra il 17 e il 29 aprile 2020. Nel pieno del periodo più serio, quello della chiusura totale, hanno quindi sentito il polso di chi nelle aziende prende decisioni. E che in questo caso ha dovuto prenderne di molto importanti in tempi strettissimi, perchè di mezzo c’era la salute delle persone e, a cascata, responsabilità enormi per i datori di lavoro. 

E’ emerso che solo il 16% delle aziende dichiara di aver adottato per la prima volta lo smart working: nello specifico parliamo del 27% delle piccole aziende e del 13% dei grandi gruppi. Si era definito “preparato” ad affrontare l’emergenza solo il 37% degli intervistati. Centrale il nodo della sicurezza: solo la metà delle piccole aziende interpellate usava un accesso VPN ai sistemi aziendali, cioè con una “porta” che registra e riconosce i collegamenti esterni. Per le grandi aziende, invece, si sale all’88%. 

Ma lo smart working fa bene o fa male al lavoro? Le opinioni sono spaccate a metà. Per il 50% rappresenta un impoverimento nei rapporti umani e professionali con cui, però bisognerà fare i conti. Perchè la percentuale di dirigenti che lo vede come modalità stabile di lavoro futura è piuttosto alta: 84% Infatti molte aziende stanno continuando a lavorare in questa modalità più flessibile, e soprattutto più sicura, per azzerare del tutto i contagi. Ma si potrà lavorare così per sempre?


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